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Archiv klassischer Werke


 
Alla Primavera
Giacomo Leopardi
 Perchè i celesti danni 
Ristori il sole, e perchè l'aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
Delle nubi la grave ombra s'avvalla; 
Credano il petto inerme
Gli augelli al vento, e la diurna luce 
Novo d'amor desio, nova speranza 
Ne' penetrati boschi e fra le sciolte 
Pruine induca alle commosse belve;
Forse alle stanche e nel dolor sepolte
Umane menti riede 
La bella età, cui la sciagura e l'atra 
Face del ver consunse 
Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti 
Di febo i raggi al misero non sono
In sempiterno? ed anco, 
Primavera odorata, inspiri e tenti
Questo gelido cor, questo ch'amara 
Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara? 
Vivi tu, vivi, o santa
Natura? vivi e il dissueto orecchio 
Della materna voce il suono accoglie? 
Già di candide ninfe i rivi albergo, 
Placido albergo e specchio 
Furo i liquidi fonti. Arcane danze
D'immortal piede i ruinosi gioghi 
Scossero e l'ardue selve (oggi romito 
Nido de' venti): e il pastorel ch'all'ombre 
Meridiane incerte ed al fiorito 
Margo adducea de' fiumi
Le sitibonde agnelle, arguto carme 
Sonar d'agresti Pani
Udì lungo le ripe; e tremar l'onda 
Vide, e stupì, che non palese al guardo 
La faretrata Diva,
Scendea ne' caldi flutti, e dall'immonda 
Polve tergea della sanguigna caccia 
Il niveo lato e le verginee braccia. 
Vissero i fiori e l'erbe, 
Vissero i boschi un dì. Conscie le molli
Aure, le nubi e la titania lampa
Fur dell'umana gente, allor che ignuda 
Te per le piagge e i colli, 
Ciprigna luce, alla deserta notte
Con gli occhi intenti il viator seguendo,
Te compagna alla via, te de' mortali 
Pensosa immaginò. Che se gl'impuri 
Cittadini consorzi e le fatali 
Ire fuggendo e l'onte, 
Gl'ispidi tronchi al petto altri nell'ime
Selve remoto accolse, 
Viva fiamma agitar l'esangui vene, 
Spirar le foglie, e palpitar segreta 
Nel doloroso amplesso 
Dafne o la mesta Filli, o di Climene
Pianger credè la sconsolata prole 
Quel che sommerse in Eridano il sole. 
Nè dell'umano affanno, 
Rigide balze, i luttuosi accenti 
Voi negletti ferìr mentre le vostre
Paurose latebre Eco solinga,
Non vano error de' venti, 
Ma di ninfa abitò misero spirto, 
Cui grave amor, cui duro fato escluse 
Delle tenere membra. Ella per grotte,
Per nudi scogli e desolati alberghi, 
Le non ignote ambasce e l'alte e rotte 
Nostre querele al curvo 
Etra insegnava. E te d'umani eventi
Disse la fama esperto,
Musico augel che tra chiomato bosco
Or vieni il rinascente anno cantando, 
E lamentar nell'alto 
Ozio de' campi, all'aer muto e fosco, 
Antichi danni e scellerato scorno,
E d'ira e di pietà pallido il giorno. 
Ma non cognato al nostro 
Il gener tuo; quelle tue varie note 
Dolor non forma, e te di colpa ignudo,
Men caro assai la bruna valle asconde
Ahi ahi, poscia che vote 
Son le stanze d'Olimpo, e cieco il tuono
Per l'atre nubi e le montagne errando, 
Gl'iniqui petti e gl'innocenti a paro 
In freddo orror dissolve; e poi ch'estrano
Il suol nativo, e di sua prole ignaro 
Le meste anime educa; 
Tu le cure infelici e i fati indegni 
Tu de' mortali ascolta, 
Vaga natura, e la favilla antica
Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi, 
E se de' nostri affanni 
Cosa veruna in ciel, se nell'aprica 
Terra s'alberga o nell'equoreo seno,
Pietosa no, ma spettatrice almeno.



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